La preistoria della copertina
Vi è mai capitato di trovarvi davanti allo scaffale di un negozio di dischi e sceglierne uno perché vi piaceva la copertina? O, al contrario, di scartarne uno con una copertina orribile? Beh, se vi trovaste nei primi decenni del secolo scorso, tutto ciò non potrebbe di certo accadervi: il vostro disco – un 78 giri in gommalacca – vi verrebbe consegnato all’interno di una semplice ed anonima busta protettiva di carta, ornato unicamente di un’etichetta tonda.

Il concetto stesso di album inteso come insieme di brani contenuti in un unico supporto è qualcosa che l’industria discografica introdurrà solo a partire dagli anni ’30: dovete sapere infatti che un 78 giri può contenere solo pochi minuti di musica per ogni lato (e i più capienti 33 giri in vinile compariranno solo negli anni ’40).

Gli album nascono originariamente come… beh, veri e propri album di cuoio e cartone (simili a quelli per le fotografie) contenenti svariati dischi raccolti per autore o per genere. L’ascoltatore può riempirli a piacimento o comprarne di già compilati. Queste confezioni, però, mancano di qualcosa che dia loro una marcia in più: la riconoscibilità. È proprio ciò che pensa il giovane Alex Steinweiss (1917-2011), che nel 1939 è da poco stato assunto come art-director alla Columbia Records. Alex ha l’intuizione che cambierà per sempre faccia alla musica: perché non inserire una grafica personalizzata sulle copertine dei dischi? È così che Smash song hits by Rodgers and Hart di Richard Rodgers and the Imperial Orchestra diventa il primo disco con copertina personalizzata della storia. Inizialmente l’etichetta discografica è scettica, ma deve ben presto ricredersi: le vendite aumentano vertiginosamente; quelle dell’Eroica di Beethoven incrementano del 900% circa.

La lunghissima carriera di Steinweiss (che è ad oggi considerato l’inventore delle copertine dei dischi) lo porterà a firmare decine di migliaia di progetti per artisti di ogni genere.
Un vecchio album di dischi a 78 giri.
La prima copertina della storia, progettata da Alex Steinweiss.
La parabola discendente del supporto fisico

È da qui che parte e si intreccia il rapporto simbiotico tra musica e arte visiva che, tra alti e bassi, conosciamo ancora oggi. Fa certamente specie parlare di questo rapporto in un’epoca come quella della cosiddetta “musica liquida”. Le dinamiche alla base dell’industria discografica sono state progressivamente messe in crisi dall’avvento delle tecnologie e dei metodi di diffusione digitali, che hanno disintegrato il supporto fisico e reso il concetto stesso di album poco più che una convenzione (un retaggio?).

Alla fine degli anni ’80, il vinile cede il passo al CD. La musica diventa informazione digitale ma rimane ancorata al supporto fonografico. Dalla seconda metà degli anni ’90 i dati di vendita del vinile sul mercato americano iniziano a mostrare un declino sensibile, mentre dal 1997 al 2006 il suo valore di mercato collassa, abbassandosi da 166 milioni di dollari all’anno a 36 milioni.

I primi anni zero del nuovo millennio segnano l’inizio della crisi dell’intero mercato fisico (CD compresi) con l’avvento dell’mp3 e dei software di diffusione via internet, che ridefiniscono completamente i lineamenti dell’industria. Le vendite digitali ad oggi hanno superato definitivamente quelle dei formati fisici, e gli abbonamenti ai siti di streaming musicale sono in crescita costante.
C’è ancora spazio per un’estetica e una poetica dell’oggetto-disco?
Vivere la musica, specialmente ai tempi del vinile e, con qualche cambiamento, anche del CD, corrispondeva a un processo di scoperta continua, a partire dall’esplorazione degli artwork (a volte complessi ed interattivi), passando per la lettura delle liner notes fino ad arrivare ai contenuti aggiuntivi come foto e gadget. È chiaro che un disco porta con se tutto un bagaglio di sensazioni e ricordi (dove eravamo quando abbiamo acquistato il nostro primo disco? Chi ci ha regalato quest’altro, e perché?) che l’ascolto liquido non può assolutamente rimpiazzare (chi riesce a ricordare il primo album ascoltato in streaming o il primo mp3 scaricato?).

Va anche detto che molte delle piattaforme di streaming non attribuiscono, nella maggior parte dei casi, la minima importanza all’artwork: molte delle copertine più belle della storia vivono infatti di dettagli e di espedienti tecnico/visivi senza i quali perdono inevitabilmente gran parte del loro senso. Questo problema, parzialmente, si pone sin dall’epoca del passaggio al CD che, oltre a implicare un estremo rimpicciolimento di formato, andava a snaturare i rapporti tra le varie parti della copertina (ad esempio la continuità tra fronte e retro) e a limitare l’uso di certi materiali e lavorazioni.

Le già citate piattaforme di streaming, invece, relegano la copertina a uno spazio quadrato di una manciata di pixel e spesso non consentono la visualizzazione estesa dell’immagine. Queste mancanze hanno dato vita ad alcune interessanti realtà alternative: possiamo segnalare ad esempio il sito Album Art Exchange, che permette agli utenti di scambiare e scaricare le copertine dei loro album preferiti anche in alta qualità. Il sito contiene una scelta vastissima che spazia fra circa mezzo milione di copertine. Una realtà molto apprezzata dai musicisti, specie se emergenti, è Bandcamp, che permette di avere grande liberta nella comunicazione e promozione della propria musica: l’artista può infatti includere i file delle copertine, può associare allo streaming anche la vendita dei supporti fisici ed ha a disposizione uno spazio dedicato all’inserimento di contenuti testuali.

Pro e contro
Dobbiamo ammettere che le modalità di accesso e l’enorme disponibilità di materiale musicale offerte dalle nuove tecnologie comportano innegabilmente tutta una serie di vantaggi: ad esempio rendono la fruizione della musica possibile praticamente sempre e ovunque, e fanno sì che possiamo scoprire più facilmente realtà emergenti o riscoprire oscure gemme del passato. Eppure, allo stesso tempo, le stesse caratteristiche che offrono queste opportunità possono portare a un deterioramento della qualità dell’esperienza d’ascolto, al sacrificio del godimento di quello che è attorno ad esso e ad un impigrimento nella ricerca e selezione della musica (spesso l’utente medio rinuncia ad una ricerca attiva per affidarsi completamente agli algoritmi digitali).

D’altro canto anche il formato fisico, naturalmente, ha i suoi svantaggi, come il costo maggiore, l’ingombro e la minore versatilità d’uso in una società in cui ci si muove a ritmi sempre più veloci.

In definitiva è giusto che ognuno abbia le proprie preferenze su come vivere la musica, ma credo sia auspicabile arrivare ad un uso incrociato ed integrato di mezzi e supporti che soddisfi le necessità quotidiane contemporanee (bisogno di comodità e rapidità) ma che, allo stesso tempo, ci permetta di non perdere la componente umana dell’esperienza fisica.
Come se la passa il vinile?
In un’epoca iper tecnologica e frenetica, paradossalmente, ecco che è proprio il buon vecchio vinile, con un colpo di coda, a far registrare una vera e propria inversione di tendenza, riconquistandosi una sua fetta di mercato e facendo prevedere la possibilità di un discreto successo parallelo ai canali principali.

Prendendo come paradigma il mercato americano del vinile attraverso i dati raccolti dalla Nielsen Holdings, salta immediatamente all’occhio come, dopo il punto più basso della sua parabola commerciale nel 2006, con meno di 1 milione di unità vendute, il trend sia stato continuativamente positivo, fino ad arrivare ai 18,8 milioni di unità nel 2019, registrando quindi una crescita del +14,5% rispetto al 2018 (16.5 milioni).

Le vendite complessive di album (fisiche + digitali) hanno, al contrario, subito una leggera flessione nell’ultimo anno, con un calo del -18,7%. Allo stesso modo le vendite dei soli album digitali e quelle generiche dei formati fisici (che includono CD, LP etc) hanno avuto un calo rispettivamente del -23,5 e del -15%. Leggendo questi dati anche alla luce di un incremento del +29,3% dello streaming (comprendente audio e video), l’incremento del mercato specifico del vinile appare ancora più notevole.

Mentre buona parte della massa si adegua ad una fruizione della musica più rapida e generalista, c’è una nicchia crescente che sembra essere ancora alla ricerca di un’esperienza più umana e quasi rituale: scartabellare decine di copertine nei negozi e nei mercatini alla ricerca di una qualche gemma o alla deriva fra colori e forme, vivere il disco come “oggetto di culto” che va oltre l’ascolto e sconfina in un’esperienza visiva, tattile e perfino olfattiva. In quest’ottica, il supporto diventa quindi un pezzo da mostrare, l’elemento di una collezione, un argomento di conversazione e uno status symbol.
Quale musica vende di più nel formato vinilico?
All’interno del suo U.S. Year_End Report, la Nielsen Holdings ha anche stilato due classifiche interessanti: i 10 album in vinile più venduti nell’ultimo decennio e i 10 album in vinile più venduti nel 2019 negli Stati Uniti.
Una tendenza interessante che ricorre in entrambe le classifiche dei bestseller è la netta predominanza di titoli del passato rispetto a quelli contemporanei. Considerando l’intero decennio, abbiamo solo due dischi effettivamente usciti negli anni ’10. Nella classifica del 2019, invece, troviamo un solo titolo appartenente allo stesso anno.
I 10 vinili bestseller del decennio negli U.S.A.
 
  1. The Beatles – Abbey Road – 1969 (558.000 copie)
  2. Pink Floyd – Dark Side of the Moon – 1973 (376.000 copie)
  3. Guardians of the Galaxy Awesome Mix Vol. 1 – 2014 (367,000 copie)
  4. Bob Marley & The Wailers – Legend – 1984 (364.000 copie)
  5. Amy Winehouse – Back to Black – 2006 (351.000 copie)
  6. Michael Jackson – Thriller – 1982 (334.000 copie)
  7. The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band – 1967 (313.000 copie)
  8. Fleetwood Mac – Rumors – 1977 (304.000 copie)
  9. Miles Davis – Kind of Blue – 1959 (286.000 copie)
  10. Lana Del Rey – Born To Die – 2012 (283.000 copie)

In grassetto i titoli usciti negli anni ’10.
I 10 vinili bestseller del 2019 negli U.S.A.

  1. The Beatles – Abbey Road – 1969 (246.000 copie)
  2. Billie Eilish – When We All Fall Asleep, Where Do We Go? – 2019 (176.000 copie)
  3. Queen – Greatest Hits 1 – 1981 (139.000 copie)
  4. Guardians of the Galaxy Awesome Mix Vol. 1 – 2014 (123.000 copie)
  5. Queen – Bohemian Rhapsody (Original Soundtrack) – 2018 (108.000 copie)
  6. The Beach Boys – Sounds of Summer: Very Best Of – 2003 (107.000 copie)
  7. Pink Floyd – Dark Side of the Moon – 1973 (92.000 copie)
  8. Michael Jackson – Thriller – 1982 (88.000 copie)
  9. Bob Marley & The Wailers – Legend – 1984 (84.000 copie)
  10. Fleetwood Mac – Rumors – 1977 – (78.000 copie)

In grassetto i titoli usciti nel 2019.
Alcune cover art che hanno fatto storia
1. The Velvet Underground & Nico
Sul finire degli anni ’60, a New York, un oscuro gruppo capitanato da Lou Reed, i Velvet Underground, è ospite fisso dello spettacolo multimediale organizzato da Andy Warhol nella sua Factory: il Plastic Inevitable Show. Il loro primo album sarà destinato a rimanere nella storia, oltre che per la musica e per i testi, anche per una copertina a dir poco inusuale realizzata da Warhol: una banana gialla in campo bianco e una scritta che recita “peel slowly and see” (sbuccia lentamente e vedi); la buccia della banana è infatti un adesivo, togliendo il quale si scopre una banana rosa shocking. I costi di produzione elevati e i problemi legati alla censura penalizzano inizialmente le sorti del disco, che viene però massicciamente rivalutato negli anni successivi diventando una pietra miliare per la musica e una vera icona di cover “interattiva”.
2. The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
Che dire dell’incredibile operazione messa in pratica da Peter Blake per i Beatles di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band? Siamo sempre nel ’67, ma dall’altra parte dell’oceano. Blake suggerisce ai fab four di immaginare di aver appena finito un concerto e di dover scattare una foto con un pubblico composto da qualunque personaggio venga loro in mente. Viene così realizzata una serie di cartonati a grandezza naturale (alcuni dipinti a mano), davanti alla quale viene fatta posare la band. Tra i “presenti” figurano nomi come Aleister Crowley, Marylin Monroe, Bob Dylan, Edgar Allan Poe e molti altri (71 in totale).
3. Joy Division – Unknown Pleasures
A Peter Saville dobbiamo invece alcuni degli artwork più unici della scena musicale inglese a partire dalla fine degli anni ’70. Saville fu infatti responsabile della grafica per la Factory Records di Tony Wilson. Sua la mano dietro alla leggendaria copertina di Unknown Pleasures dei Joy Division: essa altro non è che la rappresentazione grafica delle frequenze provenienti da una Pulsar, schema tratto da un libro di astronomia e reso a colori invertiti (bianco su nero), eppure l’immagine diventerà talmente evocativa da essere decontestualizzata e continuamente rielaborata nei modi più disparati, non ultimo come elemento di moda.